di SILVIO BATTISTINI
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La
prima considerazione che mi viene da fare sul tema delle relazioni industriali
è che, nel nostro paese, il “dibattito” continua ad oscillare fra un ideologismo ed un provincialismo delle parti
che ne condizionano fortemente lo sviluppo e che, in un contesto di mercati
globalizzati come è l’attuale, mette in evidenza, in maniera impietosa, gravi e
sempre più numerosi segnali di criticità, a cominciare dalle spinte al
decentramento dei sistemi contrattuali ed a quelli che potremmo definire veri e
propri tentativi di progressiva rottura del quadro di regolazione nazionale.
Le
recenti dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi sul rinnovo dei
contratti nazionali e le risposte di parte del sindacato vanno infatti, almeno
per il momento, in direzione di una progressiva, ulteriore, rottura del quadro
anziché in direzione di una sua ricomposizione.
Il
problema è tuttavia troppo serio per ridurlo alla sterile contrapposizione fra
chi – le aziende – chiedono di rifare le regole e poi rinnovare i contratti o
chi, come il sindacato, chiede di fare esattamente il contrario; ciò determina,
inevitabilmente, una situazione di stallo ed un progressivo evidente
indebolimento dell’intero sistema di relazioni anche in virtù dei profondi
cambiamenti intervenuti nella composizione del mercato del lavoro, della fine
del modello fordista e della rapida evoluzione delle tecnologie della
comunicazione che hanno fatto emergere nuove figure professionali – altamente
professionalizzate – che, crescendo di numero e di importanza, hanno acquisito una
centralità che, una volta, era della classe operaia.
In Italia così come in tutto il mondo occidentale, gli
effetti combinati della globalizzazione, del liberismo, delle delocalizzazioni
e della deregulation hanno prodotto flessibilità, indebolimento del sistema dei
diritti e riduzione complessiva del peso del sindacato, nel tentativo di
confinarlo sempre più in una logica aziendale per costringerlo, spesso, a
clausole derogatorie degli accordi ed a concessioni, spesso molto dure,
richieste in cambio di una salvaguardia dell’occupazione.
Una
situazione così complessa imporrebbe la capacità di mettere realmente al centro
di un nuovo sistema di relazioni industriali le implicazioni della
globalizzazione, dell'innovazione tecnologica e della crisi economica sapendo,
tuttavia, che si può correre il rischio di andare oltre le variabili
lavoristiche e sindacali “sconfinando” nella politica e ben sapendo che non è
con le leggi che si genera occupazione ma con una politica industriale e con
investimenti attenti nei settori trainanti dell’economia e che eventuali
esigenze di flessibilità vanno ricercate ponendo al centro aspetti nuovi come
competenze, orari, professionalità ecc. avendo però, le parti, l’accortezza di
guardare avanti visto che, come è evidente, i cambiamenti di oggi non possono
essere affrontati con gli strumenti del passato.
Paradossalmente ciò
genera, in taluni, l’idea che il sindacato possa/debba trasformarsi in soggetto
politico o, in altri, che possa/debba diventare un attore istituzionale
dimenticando che esso, invece, ha una sua specificità che non ha nulla a che
vedere con il ruolo, la struttura, i compiti di un partito/ movimento politico
in quanto le logiche della politica sono profondamente diverse da quelle del
sindacato che deve restare un soggetto sociale autonomo capace di
contrattualizzare la domanda sociale attraverso l’utilizzo costante del metodo
negoziale.
La
questione dell’autonomia, di una rigorosa autonomia dalla politica, deve,
infatti, impedire che prevalgano logiche di schieramento che possono ridurre
l’azione sindacale ad un innaturale schema bipolare “destra – sinistra”
alimentando la contrapposizione radicale fra diversi modelli sindacali
(conflittuale e partecipativo) e favorendo, da un lato, la pratica degli
accordi separati e, dall’altro, la conflittualità fra le organizzazioni.
In
un’epoca di grande cambiamento come è l’attuale, le parti sociali dovrebbero
saper fare i conti con una rappresentazione certa del lavoro, ma anche con le
modalità nuove con le quali si pone, oggi, la concezione della tutela
collettiva fatta, ancora, attraverso i tradizionali strumenti di lotta.
Non
vogliamo, in questa sede, entrare nel merito di questioni relative alla
efficacia dei diversi strumenti perché ciò necessiterebbe una discussione
profonda di tutto il sindacato per la quale, ad oggi, non c’è alcuno spazio.
Usiamo,
tuttavia, questa argomentazione per far capire che, a nostro avviso, è l’intero
sistema delle regole che andrebbe ridiscusso prevedendo con chiarezza, oltre
alla definizione dello spazio riservato al sindacato, anche la possibilità di
introdurre meccanismi sanzionatori nei confronti di chi, le regole, pur avendo
contribuito a scriverle ha l’abitudine di non rispettarle anche approfittando
di una incomprensibile ignavia, a volte più che evidente, di talune aziende e/o
di associazioni datoriali.
Facciamo un
esempio le norme del testo unico sulla rappresentanza sottoscritte in accordo
con Confindustria e definite, non si sa bene perché, storiche mostrano, in modo
fin troppo evidente, una grande paura del pluralismo 8e quindi dell’unità) e,
in ultima analisi, proprio di quella parte del dettato costituzionale (art. 39)
che consente ad ogni lavoratore di farsi rappresentare da chi vuole
indipendentemente dalla firma del contratto visto che l’organizzazione
sindacale – dice la nostra Costituzione - è libera e ad essa “non può essere
imposto altro obbligo se non la sua registrazione presso uffici locali o
centrali, secondo le norme di legge”.
La Costituzione non
dà, infatti, spazio alcuno a forme di autoreferenzialità mentre l’accordo punta ad esibire una concezione
“proprietaria” della rappresentanza e della contrattazione collettiva mostrando
la confusione che ancora permane, nonostante tutto, in ordine ai criteri ed
alle modalità di formazione della rappresentanza.
Nasce da qui la
frammentazione del sistema della rappresentanza sindacale che contribuisce alla
creazione di una miriade di piccoli sindacati, spesso corporativi che appaiono
privi di controllo e di guida ed i cui nefasti effetti si fanno sentire
soprattutto nelle categorie che svolgono servizi di pubblica utilità.
Ma - potremmo
dire - se Sparta piange, Atene non ride visto che gli effetti di tale
situazione coinvolgono non solo il sindacato ma anche parte delle associazioni
datoriali come dimostra l’uscita dal sistema confindustriale della Fiat che ha
indebolito il sistema di rappresentanza complessiva delle imprese proponendosi
come un nuovo paradigma che, inserendosi in un quadro molto frantumato, può
risultare più facilmente permeabile da una esperienza di “livello” come quella
Fiat.
La vicenda Fiat
ha messo in evidenza una crescente divaricazione fra un “sindacato partecipativo” disponibile
a negoziare di continuo con le
aziende ed un “sindacato conflittuale”
che accende il conflitto prevalentemente su basi ideologiche spinto a ciò da
esigenze di natura mediatica il che mettono in risalto il fatto che, in assenza
di regole certe ed esigibili da tutti, i comportamenti di ciascuno possono
essere dettati da esigenze congiunturali che appaiono sempre più privi di una
qualche prospettiva strategica.
Non è, dunque, un
caso se esiste, ed è forte, il timore di analoghi comportamenti da parte di
Finmeccanica, di Ferrovie, ecc. che dovrebbero indurre le parti sociali a
chiedersi, retoricamente, quale sarebbe l’effetto di questo ipotetico abbandono
sul già disastrato sistema di relazioni industriali nel nostro paese ?
Una
Confindustria che perdesse di rappresentatività farebbe , infatti, il paio con
un sindacato che rinunciando a riformarsi perdendo anch’esso di
rappresentatività contribuirebbero enormemente alla desertificazione delle
relazioni industriali.
Il
quadro, pur così sommariamente descritto, fornisce peraltro un’idea delle
conseguenze dirette di questa situazione sulle tutele, sulla loro
trasformazione e sull’insorgere di nuove esigenze che, non sempre, il sindacato
confederale riesce a comprendere per quello che sono non essendosi mai posto,
seriamente, il problema del passaggio da
un sistema di tutele tradizionali fondate sulle garanzie, a nuove tutele
fondate sulla partecipazione e sul coinvolgimento come dimostrano le vicende
legate all’art.18.
Ad
ulteriore dimostrazione delle difficoltà del momento basti pensare che il punto
di maggiore frizione fra le parti sociali è quello, cosiddetto, della riforma
della contrattazione e del ruolo del contratto nazionale che, in momenti di bassa inflazione, perde di
importanza consigliando alle parti di premiare la produttività, l'efficienza e
il contributo diretto che i lavoratori, danno alla redditività dell'impresa pur
mantenendo il ruolo generale e centrale del CCNL che definendo regole,
universali ed inderogabili, sia comunque capace indirizzare la maggiore produttività verso il lavoro.
Il problema è, comunque, quello di riuscire a confermare un modello di
assetti contrattuali basato su due livelli, capaci di esprimere l’essenziale
esigenza di avere un sistema di relazioni sindacali e contrattuali regolato e
quindi in grado di dare certezze riguardo ai soggetti, ai tempi ed ai contenuti
della contrattazione collettiva attraverso l’attuazione ed il rispetto delle
regole.
Torna, dunque, all’attenzione delle parti il problema delle regole che
non si risolve finché c’è chi, nel sindacato, pensa di farsi corrente politica
o, al contrario, attore istituzionale.
Del
tutto evidente appare, in questo quadro, il rapporto di consequenzialità tra
questa ipotesi di riforma del sistema
contrattuale ed una visione che sia in grado di passare alla costruzione di
nuove forme di tutela (per esempio la tutela come opportunità) per raccogliere
e rappresentare le quali occorrerebbe,
tuttavia, un sindacato che fosse in grado di formulare un nuova, autonoma,
teoria dell’azione sociale dalla quale il sindacato confederale è ancora molto
lontano.
Se,
tuttavia, ci focalizziamo solo sulle regole rischiamo di perdere di vista la
profondità delle trasformazioni produttive e, in particolare, il valore da
assegnare al lavoro.
Basta pensare che
se ci sono organizzazioni sindacali confederali che chiedono alle aziende
l’impegno formale a non utilizzare il Jobs Act non possiamo fare a meno di
riflettere anche sul fatto che ci sono aziende che tali accordi li
sottoscrivono; sottoscrivono, cioè, l’impegno a non applicare una legge dello
Stato, il che è sicuramente, paradossale in quanto indica che il problema del
rispetto delle regole e delle leggi non riguarda solo il sindacato.
Ma
veniamo ad una valutazione d’insieme sul Jobs Act su una legge, cioè, che fin
dal suo annuncio ha ricevuto molte critiche e che oggi è ancora, purtroppo, un
terreno di scontro ideologico più che un confronto reale di idee.
Se
assumiamo il punto di vista del confronto reale sulla legge potremmo scoprire,
finalmente, che la flessibilità è diversa dalla precarietà e che essa può e
deve essere contrattata, che l’idea del lavoro vissuto come percorso di
crescita professionale più che come posto fisso ha, oggi, una dimensione
centrale nelle aspirazioni delle persone ecc. “facendoci scoprire” che alcuni
dei vecchi tabù sul lavoro si sono trasformati e che occorre affrontarli con
grande franchezza proponendone una modifica meno vincolistica e più
responsabile.
Il Job
Act è, intanto, un tentativo - quanto riuscito lo vedremo con il tempo - di
risistemare, in Italia, la legislazione del lavoro e, al di là del risultato,
non si può non dire che non ce ne sia bisogno; la complessità del tema obbliga,
tuttavia, ad una riflessione ampia, verificata e verificabile, anche sulla base
di dati statistici, quindi, non è bene dare spazio né a visioni troppo
ottimistiche né a visioni catastrofiche.
Personalmente
sono convinto che molte delle valutazioni negative che accompagnano la
trasformazione in atto sono generate dalla incapacità/non volontà delle parti
di rimuovere i reciproci veti e le rassicuranti certezze per sfuggire alla
realtà dei fatti rifugiandosi nell’alveo, più rassicurante, delle discussioni
accademiche.
Per ciò che riguarda
più da vicino il sindacato esso dovrebbe essere in grado di entrare nei
processi economici, politici e sociali con l'intenzione di prevederli,
anticiparli e gestirli poiché, come già detto, non
basta una legge per affrontare i cambiamenti a cui siamo messi di fronte,
bisogna pensare che senza una visione, adeguata e coerente, del lavoro sulla
quale costruire il futuro si rischia di erigere enormi edifici privi, però, delle
necessarie fondamenta.
In tal
senso potremmo dire che il Job Act è solo un primo passo, anche se complesso ed
articolato, di un processo di trasformazione della legislazione del lavoro
italiana che, tuttavia, avrebbe bisogno di comportamenti coerenti e conseguenti
delle parti sociali e del Governo.
Prendiamo,
ad esempio, la vicenda cosiddetta dei contratti di ricollocazione attraverso i
quali si sarebbe potuto tentare di innescare un circuito virtuoso tra le
diverse forme di sostegno al reddito e le disponibilità effettive delle persone
ad un nuovo lavoro in un quadro di, cosiddette, politiche attive del lavoro.
Nella sua
stesura finale questo strumento è, purtroppo, scomparso mentre
avrebbe potuto essere un modo molto efficace per dotare, finalmente, il mercato
del lavoro di servizi finalizzati a favorire l’incontro fra domanda e offerta,
attraverso una cooperazione stretta tra i Centri per l’impiego pubblici e le
imprese che, in questo campo, possiedono, sicuramente, il migliore know-how specifico.
Nei
decreti attuativi del Job Act sono contenute, inoltre, rilevanti novità in
materia di ammortizzatori sociali per quanto attiene, ad esempio, la necessaria
razionalizzazione della cassa integrazione che ne esce depotenziata (nella
limitazione delle causali e della durata)
a vantaggio dei contratti di solidarietà resi più appetibili non solo
per evitare i licenziamenti ma anche per incrementare l’occupazione creando un
contesto di novità importanti che fanno giustizia di anni di un uso, quanto
meno abnorme, di strumenti di sostegno al reddito anche se non contengono
tracce di politiche pubbliche finalizzate a dotare il paese di una capacità di
respiro strategico, progettuale e sistemico specialmente nei settori ad alta ed
altissima tecnologia affrontando in tal modo solo un corno del problema.
Per
concludere penso che si possa dire che in termini di politiche del lavoro il
Jobs Act rappresenti, comunque, una vera e propria rivoluzione copernicana i
cui effetti andranno valutati e misurati, nel tempo, anche sul piano di ciò che
produrrà nei rapporti fra le organizzazioni sindacali e fra questi e le
organizzazioni datoriali. Il Job Act determinando un quadro di riferimento del
tutto nuovo, esigerebbe una nuova cultura delle relazioni industriali capace di
coinvolgere sia le imprese che le organizzazioni sindacali in un equilibrato
modello di convivenze e di relazioni sia dentro che fuori il lavoro rispetto al quale bisognerà, al più presto
possibile, aprire una riflessione coraggiosa che, tuttavia, resta, in un
sindacato sostanzialmente incapace di riformarsi, ancora assai lontana.
Roma 26.10.2015
Silvio Battistini
Segretario
Generale
Fismic
Confsal Roma