lunedì 26 ottobre 2015

CONSIDERAZIONI SU: RELAZIONI INDUSTRIALI E JOBS ACT

di SILVIO BATTISTINI
www.fismicroma.org

La prima considerazione che mi viene da fare sul tema delle relazioni industriali è che, nel nostro paese, il “dibattito” continua ad oscillare fra un  ideologismo ed un provincialismo delle parti che ne condizionano fortemente lo sviluppo e che, in un contesto di mercati globalizzati come è l’attuale, mette in evidenza, in maniera impietosa, gravi e sempre più numerosi segnali di criticità, a cominciare dalle spinte al decentramento dei sistemi contrattuali ed a quelli che potremmo definire veri e propri tentativi di progressiva rottura del quadro di regolazione nazionale.

Le recenti dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi sul rinnovo dei contratti nazionali e le risposte di parte del sindacato vanno infatti, almeno per il momento, in direzione di una progressiva, ulteriore, rottura del quadro anziché in direzione di una sua ricomposizione.

Il problema è tuttavia troppo serio per ridurlo alla sterile contrapposizione fra chi – le aziende – chiedono di rifare le regole e poi rinnovare i contratti o chi, come il sindacato, chiede di fare esattamente il contrario; ciò determina, inevitabilmente, una situazione di stallo ed un progressivo evidente indebolimento dell’intero sistema di relazioni anche in virtù dei profondi cambiamenti intervenuti nella composizione del mercato del lavoro, della fine del modello fordista e della rapida evoluzione delle tecnologie della comunicazione che hanno fatto emergere nuove figure professionali – altamente professionalizzate – che, crescendo di numero e di importanza, hanno acquisito una centralità che, una volta, era della classe operaia.

In Italia così come in tutto il mondo occidentale, gli effetti combinati della globalizzazione, del liberismo, delle delocalizzazioni e della deregulation hanno prodotto flessibilità, indebolimento del sistema dei diritti e riduzione complessiva del peso del sindacato, nel tentativo di confinarlo sempre più in una logica aziendale per costringerlo, spesso, a clausole derogatorie degli accordi ed a concessioni, spesso molto dure, richieste in cambio di una salvaguardia dell’occupazione.

Una situazione così complessa imporrebbe la capacità di mettere realmente al centro di un nuovo sistema di relazioni industriali le implicazioni della globalizzazione, dell'innovazione tecnologica e della crisi economica sapendo, tuttavia, che si può correre il rischio di andare oltre le variabili lavoristiche e sindacali “sconfinando” nella politica e ben sapendo che non è con le leggi che si genera occupazione ma con una politica industriale e con investimenti attenti nei settori trainanti dell’economia e che eventuali esigenze di flessibilità vanno ricercate ponendo al centro aspetti nuovi come competenze, orari, professionalità ecc. avendo però, le parti, l’accortezza di guardare avanti visto che, come è evidente, i cambiamenti di oggi non possono essere affrontati con gli strumenti del passato.

Paradossalmente ciò genera, in taluni, l’idea che il sindacato possa/debba trasformarsi in soggetto politico o, in altri, che possa/debba diventare un attore istituzionale dimenticando che esso, invece, ha una sua specificità che non ha nulla a che vedere con il ruolo, la struttura, i compiti di un partito/ movimento politico in quanto le logiche della politica sono profondamente diverse da quelle del sindacato che deve restare un soggetto sociale autonomo capace di contrattualizzare la domanda sociale attraverso l’utilizzo costante del metodo negoziale.

La questione dell’autonomia, di una rigorosa autonomia dalla politica, deve, infatti, impedire che prevalgano logiche di schieramento che possono ridurre l’azione sindacale ad un innaturale schema bipolare “destra – sinistra” alimentando la contrapposizione radicale fra diversi modelli sindacali (conflittuale e partecipativo) e favorendo, da un lato, la pratica degli accordi separati e, dall’altro, la conflittualità fra le organizzazioni.

In un’epoca di grande cambiamento come è l’attuale, le parti sociali dovrebbero saper fare i conti con una rappresentazione certa del lavoro, ma anche con le modalità nuove con le quali si pone, oggi, la concezione della tutela collettiva fatta, ancora, attraverso i tradizionali strumenti di lotta.

Non vogliamo, in questa sede, entrare nel merito di questioni relative alla efficacia dei diversi strumenti perché ciò necessiterebbe una discussione profonda di tutto il sindacato per la quale, ad oggi, non  c’è alcuno spazio.

Usiamo, tuttavia, questa argomentazione per far capire che, a nostro avviso, è l’intero sistema delle regole che andrebbe ridiscusso prevedendo con chiarezza, oltre alla definizione dello spazio riservato al sindacato, anche la possibilità di introdurre meccanismi sanzionatori nei confronti di chi, le regole, pur avendo contribuito a scriverle ha l’abitudine di non rispettarle anche approfittando di una incomprensibile ignavia, a volte più che evidente, di talune aziende e/o di associazioni datoriali.

Facciamo un esempio le norme del testo unico sulla rappresentanza sottoscritte in accordo con Confindustria e definite, non si sa bene perché, storiche mostrano, in modo fin troppo evidente, una grande paura del pluralismo 8e quindi dell’unità) e, in ultima analisi, proprio di quella parte del dettato costituzionale (art. 39) che consente ad ogni lavoratore di farsi rappresentare da chi vuole indipendentemente dalla firma del contratto visto che l’organizzazione sindacale – dice la nostra Costituzione - è libera e ad essa “non può essere imposto altro obbligo se non la sua registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.

La Costituzione non dà, infatti, spazio alcuno a forme di autoreferenzialità mentre l’accordo punta ad esibire una concezione “proprietaria” della rappresentanza e della contrattazione collettiva mostrando la confusione che ancora permane, nonostante tutto, in ordine ai criteri ed alle modalità di formazione della rappresentanza.
Nasce da qui la frammentazione del sistema della rappresentanza sindacale che contribuisce alla creazione di una miriade di piccoli sindacati, spesso corporativi che appaiono privi di controllo e di guida ed i cui nefasti effetti si fanno sentire soprattutto nelle categorie che svolgono servizi di pubblica utilità.

Ma - potremmo dire - se Sparta piange, Atene non ride visto che gli effetti di tale situazione coinvolgono non solo il sindacato ma anche parte delle associazioni datoriali come dimostra l’uscita dal sistema confindustriale della Fiat che ha indebolito il sistema di rappresentanza complessiva delle imprese proponendosi come un nuovo paradigma che, inserendosi in un quadro molto frantumato, può risultare più facilmente permeabile da una esperienza di “livello” come quella Fiat.

La vicenda Fiat ha messo in evidenza una crescente divaricazione  fra un “sindacato partecipativo” disponibile a negoziare di continuo  con le aziende  ed un “sindacato conflittuale” che accende il conflitto prevalentemente su basi ideologiche spinto a ciò da esigenze di natura mediatica il che mettono in risalto il fatto che, in assenza di regole certe ed esigibili da tutti, i comportamenti di ciascuno possono essere dettati da esigenze congiunturali che appaiono sempre più privi di una qualche prospettiva strategica.

Non è, dunque, un caso se esiste, ed è forte, il timore di analoghi comportamenti da parte di Finmeccanica, di Ferrovie, ecc. che dovrebbero indurre le parti sociali a chiedersi, retoricamente, quale sarebbe l’effetto di questo ipotetico abbandono sul già disastrato sistema di relazioni industriali nel nostro paese ?

Una Confindustria che perdesse di rappresentatività farebbe , infatti, il paio con un sindacato che rinunciando a riformarsi perdendo anch’esso di rappresentatività contribuirebbero enormemente alla desertificazione delle relazioni industriali.

Il quadro, pur così sommariamente descritto, fornisce peraltro un’idea delle conseguenze dirette di questa situazione sulle tutele, sulla loro trasformazione e sull’insorgere di nuove esigenze che, non sempre, il sindacato confederale riesce a comprendere per quello che sono non essendosi mai posto, seriamente, il problema  del passaggio da un sistema di tutele tradizionali fondate sulle garanzie, a nuove tutele fondate sulla partecipazione e sul coinvolgimento come dimostrano le vicende legate all’art.18.

Ad ulteriore dimostrazione delle difficoltà del momento basti pensare che il punto di maggiore frizione fra le parti sociali è quello, cosiddetto, della riforma della contrattazione e del ruolo del contratto nazionale che, in momenti di bassa inflazione, perde di importanza consigliando alle parti di premiare la produttività, l'efficienza e il contributo diretto che i lavoratori, danno alla redditività dell'impresa pur mantenendo il ruolo generale e centrale del CCNL che definendo regole, universali ed inderogabili, sia comunque capace indirizzare la maggiore  produttività verso il lavoro.

Il problema è, comunque, quello di riuscire a confermare un modello di assetti contrattuali basato su due livelli, capaci di esprimere l’essenziale esigenza di avere un sistema di relazioni sindacali e contrattuali regolato e quindi in grado di dare certezze riguardo ai soggetti, ai tempi ed ai contenuti della contrattazione collettiva attraverso l’attuazione ed il rispetto delle regole.
Torna, dunque, all’attenzione delle parti il problema delle regole che non si risolve finché c’è chi, nel sindacato, pensa di farsi corrente politica o, al contrario, attore istituzionale.
Del tutto evidente appare, in questo quadro, il rapporto di consequenzialità tra questa ipotesi  di riforma del sistema contrattuale ed una visione che sia in grado di passare alla costruzione di nuove forme di tutela (per esempio la tutela come opportunità) per raccogliere e rappresentare  le quali occorrerebbe, tuttavia, un sindacato che fosse in grado di formulare un nuova, autonoma, teoria dell’azione sociale dalla quale il sindacato confederale è ancora molto lontano.

Se, tuttavia, ci focalizziamo solo sulle regole rischiamo di perdere di vista la profondità delle trasformazioni produttive e, in particolare, il valore da assegnare al lavoro.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                         Basta pensare che se ci sono organizzazioni sindacali confederali che chiedono alle aziende l’impegno formale a non utilizzare il Jobs Act non possiamo fare a meno di riflettere anche sul fatto che ci sono aziende che tali accordi li sottoscrivono; sottoscrivono, cioè, l’impegno a non applicare una legge dello Stato, il che è sicuramente, paradossale in quanto indica che il problema del rispetto delle regole e delle leggi non riguarda solo il sindacato.

Ma veniamo ad una valutazione d’insieme sul Jobs Act su una legge, cioè, che fin dal suo annuncio ha ricevuto molte critiche e che oggi è ancora, purtroppo, un terreno di scontro ideologico più che un confronto reale di idee.

Se assumiamo il punto di vista del confronto reale sulla legge potremmo scoprire, finalmente, che la flessibilità è diversa dalla precarietà e che essa può e deve essere contrattata, che l’idea del lavoro vissuto come percorso di crescita professionale più che come posto fisso ha, oggi, una dimensione centrale nelle aspirazioni delle persone ecc. “facendoci scoprire” che alcuni dei vecchi tabù sul lavoro si sono trasformati e che occorre affrontarli con grande franchezza proponendone una modifica meno vincolistica e più responsabile.

Il Job Act è, intanto, un tentativo - quanto riuscito lo vedremo con il tempo - di risistemare, in Italia, la legislazione del lavoro e, al di là del risultato, non si può non dire che non ce ne sia bisogno; la complessità del tema obbliga, tuttavia, ad una riflessione ampia, verificata e verificabile, anche sulla base di dati statistici, quindi, non è bene dare spazio né a visioni troppo ottimistiche né a visioni catastrofiche.

Personalmente sono convinto che molte delle valutazioni negative che accompagnano la trasformazione in atto sono generate dalla incapacità/non volontà delle parti di rimuovere i reciproci veti e le rassicuranti certezze per sfuggire alla realtà dei fatti rifugiandosi nell’alveo, più rassicurante, delle discussioni accademiche.

Per ciò che riguarda più da vicino il sindacato esso dovrebbe essere in grado di entrare nei processi economici, politici e sociali con l'intenzione di prevederli, anticiparli e gestirli poiché, come già detto, non basta una legge per affrontare i cambiamenti a cui siamo messi di fronte, bisogna pensare che senza una visione, adeguata e coerente, del lavoro sulla quale costruire il futuro si rischia di erigere enormi edifici privi, però, delle necessarie fondamenta.
In tal senso potremmo dire che il Job Act è solo un primo passo, anche se complesso ed articolato, di un processo di trasformazione della legislazione del lavoro italiana che, tuttavia, avrebbe bisogno di comportamenti coerenti e conseguenti delle parti sociali e del Governo.
Prendiamo, ad esempio, la vicenda cosiddetta dei contratti di ricollocazione attraverso i quali si sarebbe potuto tentare di innescare un circuito virtuoso tra le diverse forme di sostegno al reddito e le disponibilità effettive delle persone ad un nuovo lavoro in un quadro di, cosiddette, politiche attive del lavoro.

Nella sua stesura finale questo strumento è, purtroppo, scomparso mentre avrebbe potuto essere un modo molto efficace per dotare, finalmente, il mercato del lavoro di servizi finalizzati a favorire l’incontro fra domanda e offerta, attraverso una cooperazione stretta tra i Centri per l’impiego pubblici e le imprese che, in questo campo, possiedono, sicuramente, il migliore know-how specifico.

Nei decreti attuativi del Job Act sono contenute, inoltre, rilevanti novità in materia di ammortizzatori sociali per quanto attiene, ad esempio, la necessaria razionalizzazione della cassa integrazione che ne esce depotenziata (nella limitazione delle causali e della durata)  a vantaggio dei contratti di solidarietà resi più appetibili non solo per evitare i licenziamenti ma anche per incrementare l’occupazione creando un contesto di novità importanti che fanno giustizia di anni di un uso, quanto meno abnorme, di strumenti di sostegno al reddito anche se non contengono tracce di politiche pubbliche finalizzate a dotare il paese di una capacità di respiro strategico, progettuale e sistemico specialmente nei settori ad alta ed altissima tecnologia affrontando in tal modo solo un corno del problema.

Per concludere penso che si possa dire che in termini di politiche del lavoro il Jobs Act rappresenti, comunque, una vera e propria rivoluzione copernicana i cui effetti andranno valutati e misurati, nel tempo, anche sul piano di ciò che produrrà nei rapporti fra le organizzazioni sindacali e fra questi e le organizzazioni datoriali. Il Job Act determinando un quadro di riferimento del tutto nuovo, esigerebbe una nuova cultura delle relazioni industriali capace di coinvolgere sia le imprese che le organizzazioni sindacali in un equilibrato modello di convivenze e di relazioni sia dentro che fuori il lavoro  rispetto al quale bisognerà, al più presto possibile, aprire una riflessione coraggiosa che, tuttavia, resta, in un sindacato sostanzialmente incapace di riformarsi, ancora assai lontana.


 Roma 26.10.2015                                                              Silvio Battistini
                                                                                    Segretario Generale

                                                                                    Fismic Confsal Roma


martedì 13 ottobre 2015

Il nuovo sito ufficiale FISMIC Roma

Nella nuova realtà globalizzata, 
caratterizzata da una forte componente relazionale fra network di "portatori di interesse" (stakeholder), la comunicazione diventa sempre più un elemento "a valore aggiunto", nel raggiungimento di risultati.

Anche il sindacato non può esimersi dall'adottare nuove logiche comunicative, che vedano l'utilizzo di strumenti "web 2.0", finalizzati a garantire la più ampia diffusione, anche in rete, delle informazioni attinenti alle logiche di tutela del lavoro.
Nasce così il nuovo sito ufficiale di FISMIC ROMA, "il TUO sindacato in rete":
                                             www.fismicroma.org

Il sito, oltre a presentare le attività di FISMIC ROMA, vuole mettere in evidenza la presenza della FISMIC sul territorio romano, oltre alle "connessioni" della struttura con progetti innovativi, anche di ordine sociale, quali ad esempio la mediazione civile ed il counseling.

L'invito, per tutti, è quello di partecipare, di rendersi parte attiva nella vita delle aziende, e di costruire un nuovo modo di comunicare.

Scriveteci!!!! a redazione[at]fismicroma.org


ELEZIONI RSU IN CAPGEMINI

VOTATE PER LA LISTA FISMIC CONFSAL
il sindacato che fa la differenza

Fra alcuni giorni i lavoratori e le lavoratrici Capgemini Italia spa di Roma saranno chiamati a votare per il rinnovo della RSU.
Ad essi chiediamo, prima ancora di un voto alla Fismic, di votare contro l’integralismo di coloro che, come ad esempio la Fiom, tentano di negare qualsiasi forma di pluralismo in azienda e, per fare questo, puntano a delegittimare tutte le posizioni diverse dalla propria.
La Fismic, a differenza della Fiom, è una di quelle organizzazioni che, con molto senso di responsabilità e con il necessario pragmatismo, si è assunto l’onere di sottoscrivere, con l’azienda, il nuovo contratto integrativo dopo che essa aveva, unilateralmente, dato disdetta di tutti gli accordi aziendali.
La Fiom non firmò l’accordo ritenendolo, bontà sua, un cedimento ai voleri dell’azienda ma dopo di ciò si è ben guardata dall’organizzare iniziative che restituissero ai lavoratori Capgemini Italia “il maltolto”.
Dalla firma separata apposta sull’integrativo è, comunque, scaturito un primo importante effetto: la salvaguardia dei livelli occupazionali e la nascita di una struttura in grado di attivare una operazione di reskilling legata ai mercati che, tuttavia, ha un bisogno vero e forte sia di manutenzione continua che di tutte quelle correzioni che possono rendersi necessarie per far divenire questo strumento ancora più efficacie nel recupero di risorse alla produzione.
Alcune storture evidenti ci sono e bisogna, infatti, correggerle in fretta per evitare la marginalizzazione progressiva delle risorse ben sapendo che non tutto ciò che non va dipende dall’inadeguatezza tecnologica dei soggetti.
Può essere, infatti, che parte dei problemi siano legati ad un clima aziendale che non riesce a fare dell’inclusione la sua politica principe grazie ad un reticolo di interessi personali e di gruppi che sarebbe bene verificare meglio e di continuo perché essi rischiano di produrre emarginazione e, alla lunga, possibili effetti negativi anche sul piano occupazionale.
Per questa ragione la Fismic Confsal attiverà, già nei prossimi giorni, una indagine del clima aziendale della quale, naturalmente, renderà pubblici i risultati, rendendosi fin d’ora disponibile ad un confronto anche con l’azienda.
Ci sono altre questioni (vedi, ad esempio, l’indennità di lavoro disagiato) che vanno riprese e portate a compimento.
La Fismic chiede il vostro voto per continuare a lavorare, unitariamente, nelle direzioni indicate assumendo la sua responsabilità di soggetto autonomo in grado di contrattualizzare la domanda sociale.


Roma 12.10.2015                                        Fismic Confsal Nazionale

lunedì 5 ottobre 2015

Convegno 14 Ottobre 2015


Accordo Storico?


Una intesa storica?

Tutt’altro che storico appare l’accordo sulla rappresentanza sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confsal con Confindustria.
Esso ci sembra, più che altro, un accordo che lascia allibiti per gli effetti devastanti che può produrre e per la leggerezza con la quale sembra essere stato stipulato.
Questo accordo mostra, in modo fin troppo evidente, che ancora una volta Cgil, Cisl e Uil hanno avuto paura del pluralismo e, in ultima analisi, proprio di quella parte del dettato costituzionale (art. 39) che consente ad ogni lavoratore di farsi rappresentare, con efficacia, da chi vuole.
L’organizzazione sindacale – dice la Costituzione - è libera e ad essa “non può essere imposto altro obbligo se non la sua registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.
Invece con questo accordo Cgil, Cisl, Uil tentano, nuovamente, di esibire una concezione proprietaria della rappresentanza e della contrattazione collettiva che non sappiamo se definire più arrogante o ingenua; sicuramente esso è tale da costringere altri (p.e. Ugl e Confsal) a sottoscriverlo per non restare fuori dai “giochi”.
Sicuramente è arrogante perché le organizzazioni maggiori sembrano, ormai, aver interiorizzato a tal punto il privilegio e la convinzione di poter fare da sé, da ritenere di poter esercitare  il loro ruolo non solo al di fuori, ma anche al di sopra, delle leggi dello Stato e della stessa Costituzione; altrettanto sicuramente essa appare ingenua perché, probabilmente, le parti dell’accordo ritenute, proprio dai firmatari dell’intesa, più significative  si rivelino, alla fine, anche le più inapplicabili.
Siamo, insomma, di fronte ad una incredibile commistione di approssimazione e di autoreferenzialità che giunge a considerare la libertà di organizzazione sindacale, così come sancita dall’art. 39 della Costituzione, come un principio astratto, impossibilitato ad evolvere compiutamente in un “diritto sindacale” effettivamente esercitabile, da tutti, all’interno dell’impresa.
Ciò in virtù del fatto che, come è noto, il diritto sindacale non può esaurirsi nel semplice riconoscimento del momento associativo ma, per essere effettivo, deve, necessariamente, espandersi sino a consentire l’attivazione efficace di quei diritti (primo fra tutti quello alla contrattazione) in grado di rendere concreta e reale l’azione sindacale nel luogo di lavoro.
Peraltro l’ostacolo a tale diritto potrebbe, ancora oggi, essere sanzionato dal ricorso all’art.28 della legge 300/70 (attività antisindacale) poiché la libertà sindacale  è finalizzata a superare lo squilibrio contrattuale tra prestatore e datore di lavoro senza prevedere limiti numerici (come, del resto, sancisce anche lo statuto dei lavoratori che ha eliminato, da tempo, il concetto di maggiore rappresentatività sostituendolo con il concetto, più ampio e diverso, di rappresentatività comparata).
Tale visione concorre, a nostro avviso, al disegno di realizzare una uguaglianza sostanziale dei cittadini prevista dalla nostra carta costituzionale  e consente di sottolineare che il nostro  ordinamento legislativo in materia di lavoro realizza un vero e proprio sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro considerandola un valore positivo che può contribuire, anche, ad una visione imprenditoriale più ampia e matura che può far evolvere positivamente l’intero sistema.
Diversamente porre all’attività sindacale i limiti che pone l’attuale intesa sulla rappresentanza rischia di ridurre la stessa incisività dello Statuto dei Lavoratori
riducendo il sistema di diritti la cui estensione serve, invece, a rafforzare il sindacato come forma istituzionale e di autotutela, attribuendogli prerogative volte a valorizzare il momento collettivo rispetto all’esercizio individuale delle libertà.
Per questa ragione potremmo definire l’intesa raggiunta una intesa consociativa in quanto frutto esclusivo di accomodamenti e compromessi patologici fra le diverse organizzazioni sindacali nella speranza di controbilanciare i conflitti che continuano ad esistere in una società sempre più complessa ed articolata.
A lungo andare, peraltro, tali comportamenti hanno fatto sì che il “sistema sindacale” abbia sempre meno ricambi, isterilendosi sempre più e degenerando progressivamente verso un sistema “autoritario” capace, prevalentemente, di produrre alterazioni profonde, strutturali e non episodiche del sistema sindacale.
Ad una degenerazione di questo tipo ci stiamo progressivamente avvicinando in particolare se si continua a perseguire l’emarginazione dal circuito contrattuale di quelle parti, ormai significative, del mondo del lavoro che non si riconoscono più in Cgil, Cisl e Uil ma che hanno, ugualmente, diritto ad essere rappresentate.
Come è possibile, ci chiediamo, che un sindacato che dovrebbe fare della democrazia, della partecipazione, della capacità di unire, le sue parole d’ordine divenga, quasi senza colpo ferire, un sindacato che divide, che ostacola la partecipazione, un sindacato che, cessando di essere uno strumento dei lavoratori, divenga un qualcosa di sempre più autoritario ed antidemocratico ?





Fismic Confsal Roma